lunedì 27 maggio 2013

INTERNET È UN MONDO SENZA REGOLE?

“Internet e il mondo dei social network sono ancora un Far West senza regole”.

La frase, purtroppo, è, ormai, diventata un cliché sempreverde, riutilizzata, all’occorrenza, da personaggi famosi che mal digeriscono talune intemperanze dei propri interlocurori su Twitter e da politici poco addentro alle questioni della legge e della Rete e, soprattutto, impreparati e maldisposti al confronto telematico.

Sentirla in tv o leggerla sui giornali, quindi, non fa più notizia.

Questa volta, però, è diverso.

Ad accostare Internet al selvaggio West è, infatti, addirittura il Presidente dell’Autorità Garante per la riservatezza ed il trattamento dei dati personali, Antonello Soro e, dunque, uno che – nonostante il suo passato di primario ospedaliero di dermatologia – di leggi ed Internet se ne intende o, almeno, dovrebbe intendersene per ruolo, funzioni ed esperienze di vita che lo hanno portato a trascorrere anni in parlamento e nelle istituzioni.

Eppure, il Garante, dalle colonne di La Repubblica, usa lo stesso frasario utilizzato qualche settimana fa dalla Presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini, in un’intervista, sempre su La Repubblica, firmata, in quell’occasione, da Concita De Gregorio.

Ma il minimo comun denominatore non sta solo e non sta tanto nel vocabolario utilizzato quanto nei concetti: sul web mancherebbero le regole.

In comune, però, la posizione del Presidente dell’Autorità Garante per la privacy e quella del Presidente della Camera dei Deputati non hanno solo questo.

Entrambi, infatti, un istante dopo aver lamentato l’assenza di regole sul web, snocciolano un interminabile elenco di condotte online da offese, a diffamazioni, passando per delazioni, violazioni della privacy e furti d’identità che costituiscono, per certo, illeciti già puniti dalle leggi in vigore.

Le leggi, dunque, ci sono e non vengono rispettate o non ci sono?

E’ un ambiguità non da poco.

In un caso, infatti, sarebbe, evidentemente, il Parlamento a dover intervenire per varare nuove regole mentre nell’altro sarebbero giudici ed autorità indipendenti – inclusa quella presieduta proprio dall’ultimo interprete del film “il web è senza regole”, Antonello Soro – a doverle applicare meglio e più efficacemente.

La realtà, se la si vuole guardare con un po’ di obiettività e con mente scevra da inutili e pericolosi allarmismi, è che le regole sul web non mancano e, a ben vedere, non mancano neppure mezzi e strumenti per farle rispettare come dimostrano le iniziative assunte dalla polizia delle telecomunicazioni all’indomani delle denunce dell’On. Boldrini e, soprattutto, come dimostra la quotidiana e puntuale attività svolta, tra gli altri, proprio dall’Autorità Garante per il trattamento dei dati personali e la riservatezza.

Possibile – ed anzi certo – che sul web, come, peraltro, fuori dal web, manchi un po’ di educazione, ci sia una diffusa non-cultura dell’odio e della violenza e, purtroppo, vi siano centinaia di migliaia di situazioni di grave disagio sociale ma, questa, purtroppo, è una circostanza enormemente più seria e più grave rispetto alla lamentata “anarchia telematica” che non può essere risolta né a colpi di leggi, né a colpi di sentenze e provvedimenti di giudici ed autorità.

Gravi e preoccupanti gli allarmi che, ormai quotidianamente, i vertici delle istituzioni lanciano a proposito del web senza regole ma guai a dimenticarsi che anche i media hanno la loro parte di responsabilità.

“Sul web la giustizia fai-da-te”, è, ad esempio, il titolo, a mezza pagina e caratteri cubitali, del servizio di La Repubblica nel quale è inserita l’intervista a Antonello Soro.

“WWW per vendetta”, con sullo sfondo, l’immagine – anche questa, ormai, valida per tutte le stagioni – della maschera di Anonymous è, invece, la copertina dell’inchiesta della quale il servizio è parte.

E’ un peccato che non si sappia resistere alla tentazione di denunciare ed urlare senza provare a capire e senza, soprattutto, interrogarsi sugli effetti e le conseguenze perverse che certe azioni di criminalizzazione e demonizzazione di un mezzo di comunicazione minacciano di produrre su un Paese che è già ultimo in Europa in termini di diffusione di internet.

Ogni tanto sarebbe bene provare a domandarsi se, per caso, la violenza ed il disagio sociale che il web racconta e fa affiorare non sia figlio proprio di quei decenni di imbarbarimento culturale prodotto dai media tradizionali che, oggi, troppo spesso, giocano a fare i primi della classe ed a prendersela con internet anziché fare una seria autocritica.

venerdì 24 maggio 2013

FUTURO DELLA PRIVACY , LIBERO SCAMBIO USA-UE , EUROPOL. I GARANTI EUROPEI DETTANO LE CONDIZIONI

 

Approvate tre Risoluzioni alla Conferenza di Lisbona.

Futuro della privacy , libero scambio Usa-Ue , adeguate garanzie nel sistema Europol.

Questi i temi cruciali al centro dell'annuale Conferenza di primavera delle Autorità Garanti per la privacy europee che si è svolta a Lisbona dal 16 al 17 maggio.Il Garante italiano era rappresentato dal Presidente Antonello Soro e dal Segretario generale , Giuseppe Busia.

Tre le Risoluzioni approvate.

Nella prima le Autorità hanno raccomandato innanzitutto agli Stati dell'Unione europea e al Consiglio d'Europa di avvalersi dell'opportunità offerta dall'attuale fase di revisione del quadro giuridico sulla protezione dati per rafforzare e garantire i diritti individuali , sviluppando un sistema di regole uniforme per il settore pubblico e quello privato.

I Garanti hanno poi sottolineato l'urgenza che il nuovo Regolamento generale sulla protezione dei dati e la Direttiva sulle specifiche attività nel settore giudiziario e di polizia , entrambi attualmente in discussione al Parlamento europeo ed al Consiglio Ue , vengano adottati contestualmente per evitare un pericoloso gap nella tutela dei cittadini europei.

Indispensabile , inoltre , ad avviso delle Autorità , che aziende private e istituzioni pubbliche investano nella sicurezza dei dati per contrastare i rischi di violazioni (data breaches) sempre più alti nel modo digitale.

Ribadita , infine , la necessità di rafforzare la cooperazione tra le Autorità di protezione dati fornendo loro le necessarie risorse e competenze soprattutto nel contesto della globalizzazione.

La seconda Risoluzione , promossa tra gli altri anche dal Garante della privacy italiano , tocca un tema particolarmente delicato: quello della creazione di uno spazio transatlantico di libero scambio.

I Garanti europei nel salutare con favore l'accento posto dal Presidente degli Stati Uniti sulla necessità di prevedere misure obbligatorie a garanzia della privacy , hanno tuttavia ricordato che da tempo l'organizzazione mondiale del commercio (WTO) prevede che gli Stati adottino e mettano in atto misure necessarie a garantire la tutela dei dati personali.

I Garanti hanno quindi auspicato che nelle prossime negoziazioni tra Unione europea e Stati Uniti il diritto fondamentale alla protezione dei dati venga promosso e sostenuto , chiedendo in particolare che siano fissate regole per disciplinare lo scambio di dati e consentire controlli efficaci da parte di Autorità indipendenti.

E' stato infine sottolineato come la creazione di una unione economica transatlantica debba favorire l'effettiva applicazione di un diritto fondamentale , come quello sulla privacy , garantito nell'ordinamento europeo , e contribuire a far accrescere negli Stati Uniti e in Europea un alto livello di protezione dati , da considerarsi anche in termini di rilevante vantaggio competitivo.

La terza Risoluzione , che ha avuto anch'essa tra i proponenti il Garante italiano , è dedicata al nuovo quadro legale presentato dalla Commissione europea che riforma funzionamento e competenze di Europol , introducendo novità di grande rilievo ed impatto , come l'ampliamento dei reati per i quali l'organizzazione è competente a raccogliere ed analizzare dati e delle possibilità di comunicazione e accesso ai dati.

Forti perplessità sono state espresse dai Garanti europei secondo i quali c'è il rischio che le proposte della Commissione abbassino il livello di tutela rispetto a quello oggi assicurato , impedendo il rispetto di principi essenziali (in particolare quello di finalità) che oggi limitano il riutilizzo e l'accesso ai file ed alle informazioni , anche sensibili , detenute da Europol.

I Garanti hanno chiesto in particolare che i dati delle persone innocenti , come le vittime o i testimoni , possano essere raccolti e utilizzati solo in base a stretti limiti e che sia garantito un adeguato livello di privacy nella cooperazione con Paesi extra europei.

ZTL : SUI CONTRASSEGNI NIENTE NOMINATIVI PER LE DITTE INDIVIDUALI

 

Il contrassegno per il transito e la sosta nelle zone a traffico limitato (Ztl) non può contenere , nella parte visibile a tutti , i dati che identificano direttamente l'interessato , anche nel caso di intestazione a ditte individuali.

Lo ha precisato il Garante [doc. web n. 2439150] a seguito della segnalazione di un cittadino che lamentava come sui contrassegni forniti agli agenti di commercio per l'accesso e la sosta nella Ztl della sua città venisse apposto , oltre ad un ologramma per la lettura ottica e alla targa dell'autovettura , anche il nome e cognome dell'interessato.

Interpellato dal Garante , il servizio competente del Comune aveva spiegato che effettivamente per i titolari di aziende di commercio e servizi era stata prevista l'apposizione sui contrassegni della ragione sociale dell'azienda che , qualora venisse esercitata in forma di impresa individuale , doveva contenere almeno la sigla o il cognome dell'imprenditore.

Il trattamento è pero risultato illecito.

Come ha spiegato l'Autorità , l'apposizione sui contrassegni della ragione sociale dell'azienda individuale , essendo in questo caso idonea a identificare direttamente l'interessato , configura un trattamento di dati riguardanti le persone fisiche.

Questi dati , in base al Codice privacy , non possono essere indicati sulla parte visibile dei contrassegni rilasciati per la circolazione o la sosta dei veicoli nelle Ztl , i quali devono contenere invece solo informazioni indispensabili a individuare l'autorizzazione rilasciata.

L'Autorità ha dunque prescritto al Comune di non apporre in futuro sulla parte dei contrassegni che devono essere esposti sui veicoli , il nome e cognome dell'interessato eventualmente contenuti nella ragione sociale dell'azienda esercitata in forma di impresa individuale , ma di indicare solo i dati riguardanti l'autorizzazione.

Il Comune ha sei mesi di tempo per adempiere.

Il Garante , infine , si è riservato con autonomo provvedimento , di verificare i presupposti per contestare al comune la violazione amministrativa concernente la diffusione di dati personali in mancanza di idonei presupposti normativi.

STOP ALLE TELECAMERE OCCULTE SUL POSTO DI LAVORO

 

Stop alle telecamere occulte sul posto di lavoro.

Il Garante per la privacy ha vietato alla società editrice di un quotidiano del sud il trattamento dei dati personali effettuato attraverso apparati di ripresa installati in modo occulto presso la propria sede.

Dagli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza su mandato del Garante , è emerso che quindici delle diciannove telecamere di cui è composto l'impianto di videosorveglianza erano state nascoste in rilevatori di fumo o in lampade di allarme , all'insaputa dei lavoratori , ai quali non era stata fornita alcuna informativa sulla presenza dell'impianto , né individualizzata , né semplificata (ad es. cartelli visibili , collocati prima del raggio di azione delle telecamere).

Le uniche informazioni , peraltro insufficienti , erano scritte su un cartello di piccole dimensioni (15x15 cm) , affisso a tre metri di altezza nell'ingresso del luogo di lavoro.

Nel disporre il divieto [doc. web n. 2439178] , il Garante ha ritenuto che la società abbia operato un illecito trattamento di dati personali , avendo agito in violazione del diritto alla riservatezza e della dignità dei lavoratori , nonché delle norme che ne vietano il controllo a distanza.

L'impianto , infatti , oltre a violare le norme del Codice privacy , era stato attivato senza rispettare quanto previsto dallo Statuto dei lavoratori (accordo con i sindacati o autorizzazione al Ministero del lavoro).

A seguito dell'intervento del Garante , la società non potrà più utilizzare i dati raccolti e dovrà limitarsi alla loro conservazione per consentire un'eventuale attività di accertamento da parte delle autorità competenti.

Il Garante , inoltre , avendo rilevato anche irregolarità nella raccolta dei dati personali degli abbonati alla testata giornalistica , ha prescritto alla società di riformulare la modulistica cartacea e quella online , inserendo tutte le informazioni sull'uso dei dati necessarie per renderla conforme alla normativa.

MARKETING SELVAGGIO : 800 MILA EURO DI SANZIONI A TRE SOCIETA'

 
 
I dati di decine di milioni di persone trattati illecitamente.

Il Garante della privacy ha emesso tre ordinanze ingiunzione per obbligare due importanti società di servizi informatici , specializzate nel settore delle banche dati [doc web nn. 2428316 e 2438949] , e un operatore Tlc [doc web n. 2368171] al pagamento di sanzioni , pari a 800.000 euro , per aver violato provvedimenti prescrittivi già adottati nel loro confronti.

Questa ulteriore azione di contrasto del telemarketing selvaggio e delle offerte promozionali indesiderate si è resa necessaria a causa delle numerose proteste che continuavano a pervenire all'Autorità in relazione a società già sottoposte a puntuali prescrizioni sul corretto utilizzo dei dati per finalità di marketing nel 2008.

Nel corso di un'apposita attività ispettiva svolta dal Garante è emerso che , nonostante le prescrizioni imposte a suo tempo dalla stessa Autorità , le due imprese specializzate nella creazione di banche dati , avevano realizzato e venduto archivi elettronici con i dati (numeri telefonici , e-mail, indirizzi…) di decine di milioni di persone , sfruttando in particolare le informazioni contenute , ad esempio , negli elenchi telefonici distribuiti prima del 2005 e nelle liste elettorali.

Tali dati erano stati raccolti e utilizzati illecitamente , senza aver informato gli interessati e senza che questi avessero fornito uno specifico consenso ad attività di marketing o alla cessione delle loro informazioni personali ad altre società.

Le due società dovranno pagare , rispettivamente , una sanzione di 100.000 euro e una sanzione di 400.000 euro.

Per quanto riguarda invece l'operatore telefonico , dagli accertamenti è emerso che nonostante fosse a conoscenza dell'origine irregolare dei dati , li aveva comunque acquistati e utilizzati per contattare gli utenti e promuovere i propri prodotti e servizi tramite call center.

Per tale attività , contraria alle prescrizioni del Garante su banche dati e marketing telefonico , dovrà pagare 300.000 euro.

La società ha impugnato l'ordinanza.

Ulteriori ordinanze ingiunzione , oltre a quelle già definite nell'ultimo anno , saranno presto adottate nei confronti di altre società , sottoposte a ispezioni , che hanno disatteso i provvedimenti del Garante , in particolare quelli relativi al telemarketing e all'utilizzo delle banche dati.

giovedì 23 maggio 2013

GOOGLE GLASS, DUBBI SULLA PRIVACY. SORO: “VANTAGGI MA ANCHE GRANDI RISCHI”

Il Garante per la Privacy e le domande sull'utilizzo e sulla sicurezza degli occhiali che si collegano a Internet.

I primi a farsi portavoce delle perplessità sono stati i membri del Congresso che hanno deciso di scrivere una lettera a Larry Page, fondatore dell’azienda di Mountain View.

Google Glass, l’oggetto futuristico che sembra uscito direttamente da un film di fantascienza, spaventa sotto il punto di vista della privacy: come si può sapere di non essere ripresi da chi li indossa?

E se gli occhiali (che riescono a collegarsi a Internet) sono in grado di riconoscere il viso e ricavare così informazioni dalla rete sulla persona che si ha di fronte in quel momento?

I Google Glass rappresentano senza ogni dubbio l’oggetto tecnologico che rivoluzionerà le abitudini e i comportamenti delle persone, non più semplici essere umani, ma in qualche modo esseri connessi con il mondo attraverso la rete.

Allo stesso tempo però aprono le frontiere a un modo del tutto nuovo di concepire la privacy personale, in un dualismo che si scontra tra le infinite possibilità del dispositivo, e la necessità di salvaguardare la privacy soprattutto dei non-utenti, di coloro che non hanno gli occhiali e non li stanno indossando.

Dopo l’annuncio del “Project Glass” sono state numerosi i dubbi e le discussioni in merito: a partire dal Wall Street Journal, passando per The Verge dove è stato confermato il blocco dell’utilizzo degli occhiali all’interno delle sale da gioco del Casinò e di alcuni bar.

“Se sono indossati solo da qualche geek – commentano i membri del gruppo Stop the Cyborgs – e sono quindi uno strumento di nicchia non ci sono problemi.

Ma se improvvisamente tutti li indosseranno e si diffonderanno come gli smartphones, non si tratterà solo più di tecnologia ma di una vera e propria cultura sociale: è una perdita di spazio che non è più solo online”.

A farsi portavoce dei dubbi legati alla privacy dei rivoluzionari Google Glass sono stati proprio i membri del Congresso americano, in una formazione bipartisan costituita sia da Democratici che Repubblicani, che ha deciso di scrivere una lettera indirizzata direttamente a Larry Page, patron dell’azienda di Mountain View.

Una lettera non priva di riferimenti ai passati screzi proprio sul fronte della privacy, avuti con Google, colta letteralmente “con le mani nel sacco” intenta a sottrarre dati dalle reti wi-fi durante il passaggio dell’automobile del servizio Street View.

“Vorremmo conoscere i piani dell’azienda – scrivono – per prevenire che i Google Glass raccolgano informazioni sugli utenti e non-utenti, senza un regolare permesso”.

Otto quesiti a cui Google dovrà dare una risposta entro il 14 giugno che spaziano dal come riconoscere se i Google Glass sono in funzione in un determinato momento, alla presenza o meno del riconoscimento facciale, all’archiviazione di foto e video senza il consenso delle persone riprese in quel momento e tutte le azioni che l’azienda intende adottare per proteggere i dati raccolti da eventuali furti e manomissioni.

Dubbi sollevati con preoccupazione anche da Antonello Soro, Garante per la Privacy: “Le nuove tecnologie sono state sempre connotate dal binomio “opportunità- rischi”, ma certo con i Google Glass i vantaggi in termini di utilità per la nostra vita quotidiana corrispondono a grandi rischi sul piano sociale e nei rapporti tra le persone – commenta -.

Chiunque finisse nel raggio visivo di chi indossa questi occhiali potrebbe venire spiato, schedato con la propria immagine e, una volta avuto accesso ai big data sparsi sulla rete, conosciuto nei suoi gusti, nelle sue opinioni, nelle sue scelte di vita.

E potrebbe veder finire in un istante la sua vita privata in onda sul web.

Magari in nome della condivisione totale.

Dall’altra parte, chiunque indosserà questi occhiali potrebbe archiviare tutto ciò che vede e le informazioni che raccoglie: avremmo tanti piccoli data base sparsi per il mondo e potenzialmente anche a rischio hacker.

Mi turba l’idea di vivere in una società nella quale alla continua sorveglianza delle telecamere si aggiungesse anche l’intrusione da parte dei super-occhiali ad alta tecnologia”.

Alcune risposte ai quesiti avanzati dal Congresso hanno già comunque trovato risposta: in una recente intervista, Steve Lee product director dei Google Glass, ha evidenziato come il riconoscimento facciale non sia presente sui modelli di prossima commercializzazione.

Allo stesso modo ha sottolineato come sia facilmente intuibile quando il dispositivo è attivo: secondo Lee sarà impossibile essere fotografati o registrati senza accorgersene, vuoi per la spia luminosa sugli occhiali o all’attivazione gestuale o vocale.

Ma il problema rimane: all’utilizzo del dispositivo secondo le policy di Mountain View, si affiancano proprio in questi giorni le prime applicazioni realizzate da aziende terze che permettono, per esempio, di scattare una foto e divulgarla su Twitter in modo quasi immediato.

Lo stesso potrà essere fatto con Facebook, con Tumblr e con tutti i principali social network.

Come fare quindi?

“Fin dall’inizio – ha rassicurato Lee – le implicazioni sociali dei Google Glass, delle persone che li indossano, sono state al centro dei nostri pensieri”.

Ma Google sarà davvero capace di garantire la privacy dei non-utenti o sarà invece necessario un cambio di approccio rispetto all’attuale normativa?

“Le norme – continua Antonello Soro – devono necessariamente fare i conti con tecnologie sempre più rivoluzionare e porsi opportunamente al passo con esse.

Ci sono già norme che vietano la messa on line di dati personali senza il consenso degli interessati, che potrebbe configurarsi come un vero e proprio reato.

Ma le leggi non bastano, serve un salto di consapevolezza”.

“Al di là delle rassicurazioni dai manager di Google, riguardo ad esempio all’introduzione della funzione del riconoscimento facciale – conclude il Garante -, occorre che le persone capiscano i fortissimi rischi di un uso selvaggio di strumenti come questi e agiscano di conseguenza, utilizzandoli per le proprie esigenze, ma rispettando la vita degli altri.

Dobbiamo quanto prima porci la questione di come promuovere a livello globale un uso etico delle nuove tecnologie”.

mercoledì 22 maggio 2013

GARANTE: NO ALLE WEBCAM NEGLI ASILI NIDO

No all'uso generalizzato di webcam negli asili nido.

La tutela della personalità e della riservatezza dei minori deve prevalere rispetto alle esigenze di genitori e strutture scolastiche.

Lo ha stabilito il Garante privacy che ha vietato l'uso delle webcam installate in un asilo nido privato di Ravenna.

No all'uso generalizzato di webcam negli asili nido.

La tutela della personalità e della riservatezza dei minori deve prevalere rispetto alle esigenze di genitori e strutture scolastiche.

Lo ha stabilito il Garante privacy che ha vietato l'uso delle webcam installate in un asilo nido privato di Ravenna.

Nel suo provvedimento il Garante ha ricordato innanzitutto, anche in riferimento a quanto precisato dalla Commissione europea, che l'impiego di sistemi di videosorveglianza deve risultare effettivamente necessario e proporzionato agli scopi che si intendono perseguire, tanto più quando si tratta di dispositivi particolarmente invasivi come le webcam.

L'installazione di webcam, per stessa ammissione dell'asilo nido, era finalizzata a venire incontro alla tranquillità dei genitori piuttosto che a salvaguardare la sicurezza dei minori.

Ma anche ammesso che l'obiettivo fosse quello di tutelare l'incolumità dei minori, tale finalità - secondo il garante - andrebbe comunque perseguita bilanciandola con altri interessi fondamentali del bambino, quali la sua riservatezza e il libero sviluppo della sua personalità.

Non sono emersi, peraltro, neanche nelle argomentazioni addotte dall'asilo nido elementi che giustificassero il ricorso all'installazione a fini di sicurezza.

Il collegamento telematico - inoltre sempre secondo l'autorità - non assicurava sufficienti tutele ai minori: in primo luogo, la visione da parte dei genitori non era limitata alle sole attività del proprio figlio, ma si estendeva naturalmente anche a quelle degli altri minori e agli insegnanti; in secondo luogo, il sistema non garantiva che anche altri, oltre ai genitori muniti di credenziali per l'accesso, potessero visionare le immagini: circostanza questa che apriva al possibile rischio che le immagini potessero poi essere registrate e usate anche a fini illeciti.

Il Garante ha dunque dichiarato illecito il trattamento dei dati operato e ha vietato all'asilo nido l'ulteriore trattamento delle immagini.

venerdì 17 maggio 2013

BALOTELLI: «MI PIACCIONO DONNE E MACCHINE VELOCI»

"Un ragazzo normale, a cui piacciono le donne e le macchine veloci".

È la definizione che dà di sè Mario Balotelli in un'intervista rilasciata nei giorni scorsi alla Cnn e pubblicata interamente oggi.

L'emittente statunitense aveva già mandato in onda la prima parte del servizio con l'attaccante, nella quale Balotelli aveva annunciato che abbandonerà il campo in caso di nuovi episodi di razzismo.

"Non penso che ciò che ho fatto in passato possa far pensare di me che sono un cattivo ragazzo - ha dichiarato l'attaccante del Milan - Alcune cose sono vere e altre sono frutto dell'immaginazione dei giornalisti, ma quando crei una certa immagine di te tutti pensano che sei così e se i media mentono su quello che fai la gente pensa lo stesso che sia vero".

Più di una volta Balotelli si è lamentato per il trattamento ricevuto dai tabloid, anche per questo si è detto molto felice di essere tornato in Italia.

"Sono contento di aver lasciato l'Inghilterra, qui ho i miei amici, la mia famiglia e una maggiore privacy rispetto al passato - ha raccontato il giocatore - A volte sogno di essere solo e che nessuno parli di me, ma il calcio lo seguono tutti e quando sei famoso devi firmare autografi e foto, specialmente ai bambini".

Nel frattempo i fan del giocatore hanno preso d'assalto il profilo Twitter, aperto ieri e attraverso il quale Balotelli ha pubblicato diverse foto, senza più la cresta e con il cane Lucky al suo fianco.

Oggi il profilo è stato temporaneamente sospeso per eccesso di follower, ormai giunti oltre quota 300.000.

"Anche se sei il migliore del mondo alle persone puoi piacere o no - ha detto ancora il centravanti del Milan - Chi mi conosce davvero sa chi sono, chi non mi conosce legge i giornali e guarda la tv, che è fatta apposta per creare opinioni diverse.

Non posso mostrare il vero Mario a chiunque".

BLOOMBERG SCEGLIE PALMISANO PER PLACARE LE POLEMICHE SULLA PRIVACY

Bloomberg ha affidato a Sam Palmisano la revisione delle norme sulla privacy.

Il gruppo fondato dall'attuale sindaco di New York ha quindi scelto l'ex presidente e amministratore delegato di Ibm come "consulente indipendente" per supervisionare il cambiamento degli standard sulla privacy in scia alle polemiche nate dal fatto che i giornalisti del colosso media usavano i famosi terminali della società per monitorare le attività di accesso e le informazioni dei clienti abbonati.

La questione della sicurezza ha portato martedì scorso anche la Bank of Japan a chiedere chiarimenti sull'uso dei terminali all'interno dello stesso istituto centrale.

La Federal Reserve ha assicurato di voler fare chiarezza e Matthew Winkler, a capo di Bloomberg News, ha dovuto chiedere scusa per "l'imperdonabile" caso ammettendo che l'agenzia ha compiuto un errore nel dare a suoi giornalisti l'accesso a dati molto sensibili.

Alla BoJ si sono aggiunte la Bce, la Banca centrale del Brasile, la Bank of Korea e la Hong Kong Monetary Authority, l'autorità di vigilanza su uno dei principali hub finanziari asiatici, che hanno detto a vario titolo di voler far luce sull'accaduto.

La Cnbc ha riferito che i giornalisti di Bloomberg avrebbero avuto accesso anche a informazioni riservate sul segretario al Tesoro e al presidente della Fed.

A lanciare l'allarme in aprile era stata Goldman Sachs, quando un reporter di Bloomberg fece a Hong Kong ad alcuni responsabili della banca statunitense alcune domande mirate, dimostrando di essere in possesso di informazioni che avrebbero dovuto invece essere riservate.

Il presidente e ad dell'agenzia, Daniel L. Doctoroff, ha detto: "niente è più importante della fiducia dei nostri clienti.

Quando un cliente ha portato alla nostra attenzione queste questioni, ci siamo scusati per i nostri errori e agito immediatamente".

"Vogliamo andare oltre e sfruttare esperti indipendenti", ha spiegato, "per determinare i nuovi standard per la privacy e la sicurezza dati.

Questa revisione verrà completata rapidamente".

Oggi con Palmisano sono stati chiamati a bordo anche il legale Hogan Lovells e l'ex direttore di Bloomberg News Clark Hoyt.

Il primo affronterà la questione dal punto di vista di un avvocato, il secondo da quello di un professionista dell'informazione.

martedì 14 maggio 2013

GOOGLE, DIETROFRONT SULLA PRIVACY: “SU INTERNET SERVIREBBE IL BOTTONE ‘CANCELLA’”

Il presidente del colosso, Eric Schmidt, si schiera a favore del diritto all'oblio.

Una posizione molto diversa rispetto al passato, condivisa anche dall'Unione europea.

Ma la rimozione dei contenuti sgraditi può essere strumentalizzata, specie da vip e potenti.

“L’assenza di un bottone ‘Cancella’ su Internet è una questione importante.

Ci sono situazioni in cui cancellare è la cosa giusta da farsi.

Propongo che alla maggiore età, per regolamento, si cambi nome.

Allora sì che si potrebbe dire, ‘Non ero io, non ho fatto io quelle cose’”.

Eric Schmidt, presidente di Google, nel corso di un intervento alla New York University pochi giorni fa, ha sollevato la questione della riservatezza in rete.

In netto contrasto rispetto al passato.

Siamo molto lontani infatti dalla sua dichiarazione del 2009, sempre in tema di diritto all’oblio, quando aveva detto: “Se hai cose che non vuoi che nessuno sappia, allora forse per prima cosa non avresti dovuto farle”.

Quindi, a distanza di quattro anni, Schmidt fa dietrofront e in favore della privacy.

In un’intervista per il suo nuovo libro The New Digital Age, Schmidt parla così della possibilità di un monitoraggio governativo delle sue attività digitali: “La privacy è ancora più importante in questo nuovo mondo interconnesso, ne abbiamo bisogno.

Avremo bisogno di combattere per questo”.

E aggiunge: “In America un ragazzo che sbaglia – che commette un crimine, finisce al riformatorio e poi ne esce – può chiedere che i dati vengano eliminati dal casellario.

E’ una cosa ragionevole.

Ma oggi questo non è più possibile per via di Internet… e questo contrasta con il nostro innato principio di correttezza.

Oggi, dalla nascita alla morte, il tuo profilo personale sarà sempre più condizionato da eventi digitali, da cosa la gente dice di te, e sarà molto difficile controllare le cose”.

Con la fine della privacy, quello che acquisirà valore secondo Schmidt sarà la reputazione pubblica, l’elemento capace di decretare il nostro successo o l’insuccesso in un mondo ipervisibile.

“Ci sono casi in cui cancellare è appropriato e altri no.

Come decideremo?

E’ ora di fare questo dibattito pubblico”.

Google così si ritrova, per voce del suo presidente, un po’ più vicina alle odiate posizioni dell’Unione Europea, che con l’ormai prossima General Data Protection Regulation prevede un diritto all’oblio indigesto alle grandi corporation della Silicon Valley.

Queste invocano la supremazia della libertà di parola, oltre che il desiderio di fare impresa senza legacci anche quando l’innovazione si scontra con la società e nascono nuovi usi della tecnologia ancora da digerire e regolamentare.

Addirittura, nei mesi scorsi, John Rodgers del Foreign Service americano, ha minacciato una guerra commerciale con l’Europa a causa di questa direttiva.

Ma, notano gli osservatori, non sono tanto i dibattiti filosofici quanto i problemi concreti a rappresentare l’interrogativo più pressante.

Infatti, l’applicazione di una simile legge probabilmente è del tutto impossibile: ai servizi come Facebook sarebbe imposto di far rimuovere i dati da dimenticare a tutti i siti terzi che ne avessero illegalmente fatto copia, pena la corresponsabilità.

Il ministero della Giustizia inglese inoltre ha preso le distanze dalla legge in questione alla fine di aprile: “Il titolo del provvedimento – ha spiegato – dà adito ad aspettative poco realistiche e ingiuste sul progetto europeo”.

Tra l’altro, uno degli effetti collaterali della normativa sul diritto all’oblio lo sintetizza Guido Scorza, giurista esperto di digitale: “La disciplina europea unica proposta da Viviane Reding (già Commissario europeo per la società dell’informazione e i mezzi di comunicazione, ndr) è apprezzabilissima, ma sul diritto all’oblio non ci siamo.

Se consentiamo a chiunque di pretendere la rimozione di un contenuto sgradito che lo riguarda, tra cento anni quando guarderanno a questa epoca attraverso Internet sembreremo tutti bravi e buoni.

Le storie di corrotti e delinquenti saranno sparite”.

Un dibattito molto complesso, come quello sul diritto all’oblio, che rischia sempre la strumentalizzazione per gli scopi di “reputation management” di vip e potenti: è il caso di Carolina Lussana, allora deputato della Lega Nord, che nel 2009 presentò una proposta di legge dove il diritto ad essere dimenticati sussisteva anche per chi “esercita o ha esercitato alte cariche pubbliche, anche elettive, in caso di condanna per reati commessi nell’esercizio delle proprie funzioni, allorché sussista un meritevole interesse pubblico alla conoscenza dei fatti”.

giovedì 9 maggio 2013

ENRICO MENTANA LASCIA TWITTER. COLPA DELL’ANONIMATO DILAGANTE?

“Il numero di tizi che si esaltano a offendere su twitter è in continua crescita.

Calmi, tra poco ce ne andremo, così v’insulterete tra di voi”.

E’ questo il cinguettio con il quale, ieri, quando erano da poco passate le tredici, Enrico Mentana ha aperto una lunga discussione via Twitter, chiusa poi, poco prima delle venti, con il suo ultimo tweet: “Un saluto finale a tutti”.

Il direttore del Tg di La7 ha così annunciato – o almeno sembra – la propria intenzione di lasciare la popolare piattaforma di socialnetwork.

L’episodio non avrebbe motivo di essere raccontato se il protagonista non fosse uno dei volti noti del giornalismo italiano, i cui cinguettii – per la verità poco più di un migliaio – erano seguiti da oltre 300 mila persone e, soprattutto, se non fosse per le motivazioni che hanno indotto Mentana a smettere di cinguettare online.

La decisione del direttore sta, infatti, tutta, in altri cento quaranta caratteri, dello stesso Mentana: “Resterei se ci fosse almeno un elementare principio d’uguaglianza: l’obbligo di usare la propria vera identità.

Strage di ribaldi col nickname”.

E’, dunque, il fatto che, su Twitter, vi siano milioni di persone che cinguettano utilizzando un nickname all’origine della decisione di Mentana di abbandonare la piattaforma di social network.

Tutta colpa dell’anonimato o di quello che, il giornalista, chiama – forse facendo un po’ di confusione tra scrivere usando uno pseudonimo e scrivere in forma anonima – “anonimato”.

Il popolare giornalista, d’altra parte, non fa mistero che nel Twitter dei suoi sogni non dovrebbe esserci spazio per cinguettii “anonimi” – nel senso appena chiarito – e a chi gli fa presente che, forse, la possibilità di cinguettare da dietro un pseudonimo consente, a molti, di sentirsi più liberi di manifestare il proprio pensiero, risponde con un cinguettio lapidario: “Curioso: gli argomenti usati dai difensori dell’anonimato su Twitter son gli stessi addotti dai massoni per giustificare le logge coperte…”.

A prescindere dal gesto di Mentana – forse dovuto ad un momento di umana debolezza davanti a qualche tweett-insulto di troppo – la discussione di ieri via Twitter è troppo importante per essere chiusa con qualche cinguettio.

Vale quindi la pena di fare un po’ di chiarezza, pur senza nessuna pretesa di proporre verità assolute che non ci sono e non possono esserci dinanzi ad un fenomeno in così rapida evoluzione e con un così rilevante impatto sociale prima ancora che giuridico.

Un primo aspetto da chiarire è che usare un nickname – su Twitter come in qualsiasi altra piattaforma online – è perfettamente legale ed è, anzi, quanto suggerito dai Garanti della Privacy Europei sin dal 2008 e ribadito, più di recente anche dal nostro Garante per il trattamento dei dati personali e la riservatezza.

A ciascuno, quindi, scegliere se presentarsi online con il proprio nome e cognome o, invece, usare uno pseudonimo moderno ovvero un nickname, una modalità di “firma” e non di anonimato, diffusa da tempi ben più antichi della Rete.

Completamente diversa, invece, è la questione della legittimità o meno e, soprattutto, dell’opportunità o meno di consentire – ammesso che un eventuale divieto possa essere effettivamente attuato – che chi pubblica un contenuto online si renda completamente irrintracciabile, mascherandosi non già semplicemente dietro ad un nickname ma dietro ad una falsa identità o ad una identità di fantasia.

Nel primo caso, infatti, chi abusi della propria libertà di manifestazione del pensiero, se anche abbia scelto di farlo sotto il nickname di “cavaliere mascherato” è destinato, senza neppure grandi difficoltà, ad essere identificato e chiamato a rispondere del suo abuso mentre, nel secondo, rintracciare online chi ha scelto scientificamente di non essere rintracciabile, potrebbe essere molto difficile ma non necessariamente sempre impossibile.

La regola su Twitter – per stare alla vicenda che ha fatto infuriare Mentana inducendolo ad abbandonare la piattaforma cinguettante – è che si utilizzi un nickname ma che si lasci il proprio indirizzo mail ed una serie di altre informazioni che, ove necessario, consentono all’Autorità di rintracciarci.

E’ ovvio che si può scegliere di lasciare un indirizzo mail a sua volta non riconducibile ad un’identità reale ed aver cura – con una serie di espedienti alla portata se non di tutti dei più – di lasciare poche tracce digitali.

Ma da qui a cinguettare – come ha fatto Mentana – che chi difende l’uso di un nickname su Twitter la pensa come i massoni a proposito dei loro elenchi segreti, il passo è davvero lungo.

Quanto al tema dell’anonimato – quello vero – online, è questione straordinariamente complessa.

Sembra, però, opportuno ricordare che, proprio di recente, il Relatore Speciale delle Nazioni Unite per la promozione e tutela della libertà di informazione, in un suo report sulla circolazione dei contenuti violenti online, ha ribadito che tutti gli Stati dovrebbero consentire ai propri cittadini di esprimersi online, protetti dall’anonimato.

Forse la soluzione – da ricercarsi necessariamente a livello globale – potrà, un giorno, essere rappresentata dal ricorso ad una qualche forma di c.d. “anonimato protetto”: libertà di agire online in forma anonima, dopo aver, tuttavia, lasciato da qualche parte la vera identità alla quale, solo le forze dell’ordine, dietro ordine della magistratura e nei soli casi più gravi, potranno accedere.

E’ difficile, d’altra parte, allo stato, ipotizzare una identificazione “forte” degli oltre due miliardi di naviganti del web.

Educazione, cultura, autodisciplina e, soprattutto dialogo e confronto online – come suggerito proprio dal relatore speciale Onu nella sua relazione - restano, probabilmente, le cure migliori per un male – quello del c.d. hate speech – che innegabilmente esiste ma è, probabilmente, un necessario tributo da pagare a fronte dei tanti effetti positivi in termini democratici sin qui prodotti dalla diffusione di Internet.

martedì 7 maggio 2013

M5S, INTERVIENE IL GARANTE DELLA PRIVACY: “CANCELLARE LE MAIL RUBATE”

Dopo aver definito la vicenda della posta violata degli esponenti 5 stelle, "un fatto gravissimo", l'autorità per la tutela dei dati personali corre ai ripari: "Vietato trattare ulteriormente il contenuto delle mail dei deputati del M5S.

Chiunque le detenga deve cancellarle".

Alla fine è arrivato lo stop del Garante per la privacy.

“Vietato divulgare e trattare ulteriormente il contenuto delle mail dei deputati del Movimento 5 Stelle“, è la decisione dell’autorità per la protezione dei dati personali.

Non solo.

La posta violata dovrà sparire.

“Le testate giornalistiche, i siti web e chiunque detenga queste mail, per averle eventualmente scaricate – informa infatti una nota – dovrà provvedere a cancellarle, anche dai propri archivi”.


Ora il provvedimento si è reso necessario in quanto “l’attività compiuta a danno dei deputati configura, innanzitutto, una grave violazione di un diritto fondamentale sancito dalla Costituzione, quello alla segretezza della corrispondenza e delle comunicazioni di ogni cittadino, aggravato in questo caso dal fatto che ad essere stata violata è la corrispondenza di membri del Parlamento, tutelati da specifiche disposizioni costituzionali”. 

L’attività di quelli che si definiscono gli ”hacker del Pd“, “oltre che una responsabilità di natura penale, il cui accertamento è già al vaglio dell’autorità giudiziaria, ha comportato una violazione del Codice privacy per quanto attiene a tutte le informazioni contenute nella corrispondenza che sono state diffuse all’insaputa e contro la volontà degli interessati, violando il principio generale in base al quale i dati personali dei cittadini devono essere trattati in modo lecito, secondo correttezza e raccolti e utilizzati per scopi legittimi”.

Prima vittima dei pirati informatici, la deputata Giulia Sarti.



Altrimenti, settimana dopo settimana, il contenuto delle mail private verrà reso noto a tutti. 

I colpevoli non si trovano e il Garante è corso ai ripari.

“La vicenda ha determinato la lesione del diritto alla riservatezza non solo dei diretti interessati, cioè dei parlamentari intestatari degli indirizzi di posta elettronica – prosegue la nota – ma anche di tutti coloro che sono entrati in contatto con essi tramite mail, nonchè eventualmente di terzi citati nelle comunicazioni”.

Alla luce di queste considerazioni, “l’illiceità della iniziale acquisizione delle comunicazioni e della successiva messa a disposizione delle stesse sul web – sottolinea l’Autorità – “estende i suoi effetti anche ai successivi trattamenti di dati, rendendo illecita ogni altra successiva operazione di raccolta, conservazione e ulteriore utilizzo degli stessi dati”.

Ed è proprio la prima a cadere nella rete dei pirati informatici, Giulia Sarti, a commentare la decisione del Garante: “Hanno fatto il loro lavoro“.

Poi l’amarezza per la lentezza della giustizia sul caso.

“Sarà un problema che affronterò in Commissione Giustizia – assicura la deputata stellata – Quando ti scontri con la burocrazia vigente ti rendi conto di tante cose: ho assistito a interventi inversamente proporzionali alla velocità della Rete, di cui gli hacker si servivano per colpirci.

E la lentezza con cui ho fatto i conti non coinvolge solo vicende come la mia ma tanto altro, pensiamo ad esempio alle rogatorie”.

In altre parole, “chi dovrebbe tutelare finisce per essere ingessato e io vorrei aprire un’ampia riflessione su questo”.