venerdì 13 dicembre 2013

"L'ORGOGLIO E I PREGIUDIZI": COMUNICARE SENZA DISCRIMINARE OMOSESSUALI E TRANSESSUALI

Gay e media: comunicare senza discriminare.

Per la prima volta il ministero per le Pari Opportunità pubblica le linee guida rivolte ai giornalisti per informare senza stereotipi sul vissuto delle persone omosessuali e transessuali.

Una sorta di “Carta arcobaleno” in cui si invocano correttezza, professionalità e competenza, frutto del lavoro dell’agenzia di stampa Redattore Sociale d’intesa con l’Ordine dei giornalisti e la Federazione nazionale della Stampa.

Un terreno scivoloso: un po’ per pigrizia un po’ per ignoranza non sempre si rende un buon servizio ai lettori e in molti casi si propagandano – anche in buona fede – pregiudizi dannosi.

Ma quali sono i vizi dell’informazione, gli errori più frequenti?

E soprattutto, come evitarli?

Ecco alcuni suggerimenti proposti dalle linee guida.

Cominciamo dalle basi.

Sesso e genere non sono sinonimi.

Se la biologia decide il nostro sesso biologico, la nostra psiche, la società e la cultura in cui viviamo determinano il genere: l’essere uomo o donna.

“Orientamento sessuale” è meglio di “preferenza sessuale”, espressione da evitare perché sottintende l’idea che essere gay sia una scelta, che si può rivedere o cambiare, magari con l’aiuto di terapie cosiddette “riparative”.

L’orientamento sessuale, così come quello eterosessuale, non è una scelta: pretendere di modificarlo causa problemi inutili e deleteri alle persone coinvolte.

L’acronimo LGBT identifica le persone gay, lesbiche, bisessuali e transessuali ed è apprezzato dalla comunità perché racchiude decenni di lotte e guida anche oggi le battaglie contro discriminazioni e violenze basate su omofobia e transfobia.

Questo termine-ombrello in Italia è poco usato ma va acquisito nel linguaggio comune, utilizzato e fatto conoscere.

Outing o coming out?

Secondo il ministero sbagliano in molti.

Nel primo caso si rivela l’omosessualità altrui.

Nel secondo la propria.

In senso più ampio, l’abbreviazione dall’inglese “coming out of the closet” (letteralmente “uscire dall’armadio”, quindi uscire allo scoperto) è il percorso della presa di coscienza della propria omosessualità, dell’accettazione e infine della libertà di viverla senza nasconderla.

Verbi come “ostentare”, in genere, vanno evitati (meglio scrivere “dichiarare”) perché rimandano al luogo comune del “gay esibizionista”.

La convinzione che sottostà a questo pregiudizio è che esista un diritto alla vita privata – di cui anche le persone omosessuali certamente godono – ma che non si debba dare alle persone omosessuali alcun riconoscimento pubblico.

Mai “confessare”, l’omosessualità non è un peccato.

Transessuale: maschile o femminile?

Quando parliamo di persone transessuali in realtà non sappiamo ancora nulla del loro orientamento sessuale.

Esistono transessuali eterosessuali così come transessuali omo o bisessuali: l’articolo (il/la, una/un) va declinato rispettando il genere di elezione, o di destinazione, della persona interessata.

Non è corretto dunque parlare di “un” transessuale per chi transita dal genere maschile a quello femminile (Male to Female).

Transessualità non è prostituzione.

Va superata la tendenza a sovrapporre in toto la questione della transessualità con quella della prostituzione trans, che è una delle manifestazioni che la rendono più visibile, specialmente nelle notizie di cronaca.

Amico intimo, amico vicinissimo, la persona che gli è stata più vicina…

Sono espressioni che alludono a un’unione stabile tra due uomini (o due donne).

Parlare di famiglia gay o famiglia omosessuale per indicare il nucleo in cui i genitori sono dello stesso sesso comporta il rischio di trasferire l’omosessualità dai genitori a tutti i componenti.

Il pregiudizio è dietro l’angolo: chi viene cresciuto da una coppia di gay o di lesbiche – questo il luogo comune – è destinato a sviluppare a sua volta un proprio orientamento omosessuale.

Meglio scegliere il termine famiglie omogenitoriali, oppure famiglie con due papà, due mamme.

Tic omofobici riguardano esperti e interlocutori.

La tendenza a consultarli a patto che non siano lgbt, quasi che questa condizione renda chi parla meno affidabile, in quanto mosso dall’emotività, è un pregiudizio ricorrente.

Così come non consultare le associazioni che lavorano su questi temi quando i giornalisti cercano un portavoce.

Contraddittorio: istituirlo sull’omosessualità (pro e contro) è di per sé un atteggiamento omofobico.

Perché contrapporre in un talk show un sacerdote ortodosso a un attivista gay?

Quando un tema non richiede più il contraddittorio?

Secondo lo scrittore Tommaso Giartosio “molti temi, per esempio il divorzio, un tempo lo richiedevano ma oggi non più.

La scelta è puramente politica.

È una scelta di valore, e di valori”.

Lesbiche invisibili.

Come accade più in generale alle donne, l’uso del maschile in funzione universale non riconosce la loro identità occultata dietro i termini omosessuale o gay, che sono maschili ma vengono impiegati come neutri.

“Per le lesbiche – fa notare il giornalista Claudio Rossi Marcelli – non ci siamo nemmeno degnati di inventare un insulto, cosa che invece hanno fatto altre lingue”.

Volti pixelati.

I minori vanno tutelati, questa la disposizione della Carta di Treviso: il presupposto è che la rappresentazione dei loro fatti di vita possa arrecare danno alla loro personalità.

Questo rischio, tuttavia, “può non sussistere quando il servizio giornalistico dà positivo risalto a qualità del minore e/o al contesto familiare in cui si sta formando” si legge nelle linee guida.

Se quindi vediamo i volti di minori pixelati, per esempio in un servizio sulle famiglie omogenitoriali, dobbiamo sapere che si tratta di una scelta.

Alla base, insomma, c’è una valutazione della positività o meno del contesto descritto, da cui discende se rendere irriconoscibili i minori (a tutela della privacy) oppure no, ritenendo di dare un risalto favorevole al loro contesto di vita.

Anche le immagini contano.

Notizie e reportage che riguardano le persone lgbt ritraggono spesso gay pride, esibizioni pubbliche di nudità, discoteche e luoghi di incontro come saune e dark room: queste foto hanno in comune il fatto di rimandare al sesso, ritraendo l’omosessualità sotto l’unico aspetto del piacere e identificano la persona omosessuale interamente con la sua sessualità.

Meglio scegliere immagini di vita quotidiana.

Illustrare servizi giornalistici che si occupano delle persone trans con immagini tratte dalla prostituzione di strada, oppure con foto che le ritraggono in pose e abbigliamenti esuberanti, fa passare il messaggio che sono solo fenomeni da baraccone.

Le trans che si prostituiscono in realtà sono poche: la maggior parte svolge una quantità di mestieri e professioni diverse.

Le linee guida curate da Giorgia Serughetti nascono dal ciclo di seminari di formazione per giornalisti “L’orgoglio e i pregiudizi” che si è svolto a ottobre in quattro città italiane (Milano, Roma, Napoli e Palermo) grazie al finanziamento dell’ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar) nell’ambito del progetto europeo “LGBT Media and Communication” consultabile online sul sito www.pariopportunita.org.