sabato 11 gennaio 2014

VIRGILIO, DOPO LE OCCUPAZIONI SANZIONI CONTRO GLI STUDENTI

Due sospensioni (ma con obbligo di frequenza), 10 ore di lavoro in biblioteca e un'ammonizione.

Sono alcune delle sanzioni disciplinari finora adottate al Virgilio per 3 dei 5 studenti chiamati a rispondere della forzatura della porta dell'area docenti nel corteo interno che il 28 novembre diede il via all'occupazione e del picchettaggio dei giorni seguenti.

A stabilirle, i consigli di disciplina nel liceo di via Giulia.

Finora sono stati esaminati i casi di 3 dei 5 ragazzi "a giudizio": uno se l'è cavata con un'ammonizione, gli altri due, rispettivamente, con due e tre giorni di sospensione con frequenza obbligatoria, a cui nel secondo caso si sono aggiunte 10 ore di lavoro in biblioteca.

Ma le modalità con cui i consigli si svolgono hanno scatenato le proteste degli studenti e le polemiche di alcuni genitori.

"Il nostro regolamento - spiega Stefano Sinibaldi, genitore rappresentante in consiglio d'istituto - prevedeva che le riunioni fossero pubbliche.

Ma la preside ha convocato un consiglio d'istituto per cambiare il regolamento, senza rispettare le modalità previste.

Non si possono violare le regole mentre se ne pretende il rispetto dai ragazzi".

"Quell'articolo era in contrasto con la legge sulla privacy ed è stato cambiato spiega però Niccolò Argentieri, uno dei docenti .

I consigli di disciplina si svolgono in presenza del consiglio di classe, dei genitori del ragazzo e di eventuali testimoni.

Ogni diritto è tutelato".

Tra le presunte irregolarità contestate dagli studenti c'è altro: "Al consiglio di disciplina una ragazza si è vista cambiare all'improvviso il motivo della sanzione ed è stata punita con due giorni di sospensione per aver guidato il corteo in cui altri hanno forzato la porta.

Una motivazione per noi assurda" spiegano dal collettivo.

Parlano invece di provvedimenti "equilibrati" molti docenti, così come un'altra parte dei genitori: "Le sanzioni sono state un segnale, peraltro moderato, che la scuola doveva dare come ambiente educante" dice Chiara Matteucci, presidente del consiglio d'istituto.

Ma i ragazzi avrebbero già intenzione di fare ricorso all'organo di garanzia scolastico.

venerdì 10 gennaio 2014

L'AFFAIRE DELLE CARTELLE CLINICHE RIBASSI RECORD E NIENTE WEB

Il flop dell'informatizzazione delle cartelle mediche alla Asl di Bari e lo spreco di denaro pubblico.

Due aspetti che convergono in un nuovo fascicolo d'inchiesta affidato al sostituto procuratore Luciana Silvestris.

L'indagine, svolta dalla guardia di finanza, nasce da una denuncia presentata contro la Cni, società controllata al cento per cento dalla Gesfin spa, la romana intermediaria che vendette all'Inail il Palagiustizia di via Nazariantz.

Corsi e ricorsi storici: la stessa società che finì sotto processo a Bari, poi assolta dall'accusa di truffa nei confronti dell'istituto di previdenza, torna nelle aule di tribunale, citata dalla Pròdeo spa, concorrente esclusa dall'affare e pronta a dare battaglia.

L'affare in questione, a sei zeri, è l'affidamento provvisorio da parte della Asl del servizio di prelievo e gestione della documentazione amministrativa e sanitaria, fino ad allora depositato nei locali dell'ex Cto, ottenuto dalla Cni grazie al criterio del "massimo ribasso".

Un ribasso sospetto, secondo la Pròdeo che ha denunciato alla Procura di Bari numerose "anomalie": il prezzo bassissimo, innanzitutto, del servizio di prelievo e gestione della documentazione, 80 centesimi a metro lineare (l'unità di misura delle cartelle) contro i 380 euro chiesti dalle altre ditte in gara.

Un'anomalia spiegata così dalla Cni:

"Il servizio rappresentava un costo quasi nullo perché la ditta già effettuava consegne documentali presso la Cittadella della cultura, adiacente la sede della Asl".

Se così fosse, sarebbe però ancor più singolare lo stesso conveniente trattamento economico esteso dalla società agli ospedali di Triggiano, Conversano, Mola di Bari, Monopoli e al "Di Venere" di Bari, successivamente inseriti nel servizio da una delibera commissariale.

Le anomalie, però, si legge nell'esposto, continuano soprattutto nel merito.

Il servizio infatti prevedeva anche la creazione di un data base delle cartelle mediche, che comprendesse, oltre i dati personali del paziente, anche quelli relativi al suo precedente ricovero.

Ma, per la Prodeo così non è stato:

«La Cni non ha mai svolto alcuna attività di riordino e informatizzazione.

A dimostrazione delle attività non svolte - sostiene - ha consegnato solo un cd contenente un semplice elenco di consistenza della documentazione presa in carico».

Niente cartelle online, dunque, ma all'occorrenza spedite tramite un corriere a chi le richiede, in tempi rapidissimi.

Con buona pace dello snellimento della burocrazia e del risparmio promesso.

«Nulla si ritiene di dover commentare - scrive il legale rappresentante della Prodeo, Domenico Marzocca nell'esposto- circa un affidamento provvisorio che si protrae dal 2007 e sui conseguenti danni erariali arrecati».

Una situazione alla quale si è cercato di porre rimedio, nel settembre 2010, bandendo una gara europea per l'affidamento del servizio di archiviazione, custodia e gestione della documentazione della Asl barese, con un valore stimato, a base d'asta, di sette milioni di euro e una durata di cinque anni.

Una gara vinta dalla Cni, in raggruppamento temporaneo con Servizi Globali srl e Telecom Italia, e dalla quale invece la Prodeo è stata esclusa.

Ma anche in questo caso, denuncia Marzocca, sono ravvisabili violazioni al capitolato: all'articolo 4, primo comma, si prescriveva che "l'aggiudicatario debba custodire i documenti in locali di proprietà o in uso, che devono avere la destinazione d'uso come deposito archivio cartaceo".

E ancora: "l'immobile dovrà essere idoneo all'espletamento del servizio di custodia e gestione di archivi,e non dovranno essere svolte altre attività di qualsiasi genere".

E invece, a quanto pare, i documenti di un milione di "pazienti" sono stati "archiviati" in un capannone a Rutigliano, con destinazione d'uso a "opificio industriale" e dove, come certificato anche dai vigili del fuoco, alcuni spazi sono stati subaffittati ad altre aziende che vendono al dettaglio elettrodomestici ed apparecchiature elettroniche.

Con buona pace della privacy e della tutela dei dati sensibili.

GMAIL, SEMPRE PIÙ INTEGRAZIONE SOCIAL: ORA SI PUÒ SCRIVERE A UTENTI DI G+

Google ha aggiornato il suo servizio di posta elettronica Gmail, introducendo alcune funzioni specificamente "social".

Tutte però legate a Google+, il network di Mountain View, con Gmail che ora può essere utilizzata come strumento di comunicazione tra utenti.

Sia che questi siano già connessi tra loro attraverso una "cerchia", sia che ancora non lo siano.

Uno scenario che apparentemente solleva questioni di privacy.

Chiunque può contattarmi o vedere l'indirizzo della mia mail con questa nuova funzione?

No.

Google sottolinea come la novità non infici la privacy dell'utente.

E spiega in una mail agli utenti:

"Alcuni accorgimenti a tutela della privacy degli indirizzi email fanno sì che inviare email alle connessioni Google+ sia leggermente diverso dal normale invio di messaggi.

Il tuo indirizzo email non sarà visibile alle tue connessioni Google+ finché non invierai loro un'email".

E allo stesso tempo, "tu non potrai vedere gli indirizzi email delle tue connessioni Google+ finché loro non avranno risposto ai tuoi messaggi".

Insomma (quasi) tutto come prima: l'indirizzo utente rimane tutelato.

La novità è stata introdotta per facilitare le connessioni tra utenti che non si sono scambiati gli indirizzi di mail.

Di fatto, Gmail si trasforma in un social network.

Che ricalca Facebook nella messaggistica: chiunque può scrivere a chiunque, ma non è detto che chi riceve debba essere già un contatto di chi scrive.

Spiega Google:

"Probabilmente ti è già capitato di voler scrivere a una persona che conoscevi ma con la quale non avevi scambiato l'indirizzo email.

A partire da questa settimana, quando scrivi nuovi messaggi, Gmail ti suggerirà come destinatari le tue connessioni Google+, comprese le persone con le quali non hai ancora scambiato l'indirizzo email".

E nel dettaglio:

"Quando ricevi un'email da una persona esterna alle tue cerchie, l'email viene inclusa nella categoria Social della Posta in arrivo (se abilitata) e tale persona potrà avviare una conversazione con te solo dopo che avrai risposto o l'avrai aggiunta alle tue cerchie".

Nonostante le premure di Google, qualcuno potrebbe non desiderare di essere contattato da chiunque.

Per questi utenti, le nuove funzioni social sono disattivabili:

"Sul desktop troverai una nuova impostazione di Gmail che ti permette di determinare chi può mettersi in contatto con te".

In pochi clic Gmail può tornare come ieri, lasciando il social ad altri siti.

giovedì 9 gennaio 2014

UN CODICE CONTRO I CYBERBULLI: INSULTI RIMOSSI IN 2 ORE

Contro il cyberbullo, arriva il bottone d' emergenza.

Basta un clic e la foto, il commento, il video postato ritenuto offensivo dall' utente sarà segnalato e rimosso entro due ore al massimo.

È questa la novità più importante della bozza del Codice di autoregolamentazione per la prevenzione e il contrasto del cyberbullismo, approvata in una riunione tecnica presieduta dal vice-ministro dello Sviluppo economico Antonio Catricalà, a cui hanno partecipato rappresentanti dell' Agcom, della Polizia postale, del garante della Privacy e dei colossi del web quali Google e Microsoft.

Il testo, che sarà visibile per i prossimi 45 giorni sul sito del ministero per raccogliere ulteriori suggerimenti degli utenti, prevede che gli operatori che forniscono servizi di social networking (quali Facebook o Instagram), di contenuti online e di piattaforme user generated content (tipo Flickr o YouTube) si impegnino ad attivare «meccanismi di segnalazione di episodi di cyberbullismo».

Sistemi che devono essere «visibili all' interno della pagina web, semplicie diretti, in modo da consentire ai bambini e agli adolescenti l' immediata segnalazione di situazioni di rischio e di pericolo».

La bozza del Codice prevede anche altro.

Chi aderisce si impegna a rimuovere i contenuti lesivi per la vittima entro due ore dalla segnalazione, per fermare tempestivamente l' effetto "rimbalzo" e dunque la diffusione a macchia d' olio sulla Rete.

Potranno anche consentire alla Polizia postale di risalire all' identità di chi si rende protagonista di «comportamenti discriminatorie denigratori, volti a danneggiare l' immagine e la reputazione di un proprio coetaneo».

Per la prima volta dunque gli operatori del web, le istituzioni e le associazioni (alla riunione era presente anche Confindustria) siglano un codice di autoregolamentazione.

Tra le altre cose prevede anche l' istituzione di un comitato di monitoraggio presso il ministero dello Sviluppo economico per controllarne l' effettiva applicazione.

Non sfugge la delicatezza della questione, che va a toccare i temi della libertà di espressione e della privacy in generale, né la complessità strutturale di meccanismi per la rimozione immediata dei contenuti.

Anche per questo il testo per ora è solo una bozza, da sottoporre a consultazione pubblica per un mese e mezzo.

mercoledì 8 gennaio 2014

MIA FIGLIA DISTRUTTA DALLA MARIJUANA

Lettera firmata Napoli sono un medico, madre di una figlia originariamente assai bella e intelligente, che si è distrutta fisicamente e psichicamente facendo uso da quattordici anni di marijuana.

Oggi la ragazza è una psicotica paranoica incapace di riconoscere la sua patologia.

Per la mia profondamente dolorosa esperienza ritengo improponibile qualunque ipotesi di legalizzazione dell' uso e di liberalizzazione della vendita di cannabis.

Intendo riferirmi all' articolo del magistrato Nicola Quatrano pubblicato su "Repubblica", edizione di Napoli, il 4 gennaio scorso.

È del tutto evidente che l' autore sul piano sociale potrebbe avere ragione; certamente la liberalizzazione della vendita di questa droga sbaraglierebbe i mercanti dell' erba, eliminando anche il reclutamento costante di giovani per lo smercio; apparentemente quindi effetti positivi.

Quatrano (del quale mi dicono un gran bene come uomo e come magistrato) non considera però che una droga, per quanto leggera possa essere, non ha gli stessi effetti su tutti gli individui, ma agisce in modo assolutamente diversoa secondo della risposta dell' organismo: da alcuni quindi è tollerata senza incidenti, sempre che l' uso sia moderato; per altri invece ha conseguenze disastrose pur in dosi non eccessive.

Non senza considerare che in ogni caso l' abuso, peraltro assai frequente, è dannosissimo per tutti, e quindi anche per chi ritiene di possedere una struttura fisica immune da rischi.

Renderne perciò libera la circolazione può aggravare enormemente la condizione dei consumatori.

Ci sono organismi fragili, che possono presentare specifiche debolezze anche genetiche rispetto alle quali la marijuana produce effetti micidiali, risvegliando carenze che viceversa potrebbero rimanere sopite per l' intera esistenza del soggetto assicurandogli una vita normale, e che viceversa con l' uso di questa droga vengono non solo richiamati e stimolati, ma addirittura esaltati parossisticamente, portando il soggetto dall' area della normalità a quella della vera e propria patologia.

Lascio immaginare poi quello che accade se questi soggetti ne fanno anche uso smodato utilizzando qualunque meccanismo lecito o illecito per potersela procurare.

Posso garantire che allora si entra nel settore della irrecuperabilità e quindi delle assolute tragedie familiari.

Si consideri poi che continuando ad affermare ed insistere sul fatto che la marijuana non è dannosa, tanto da auspicarne la liberalizzazione, si inducono involontariamente i giovani a farne liberamente uso e spesso iniziandone il consumo in quella delicatissima fase che è l' adolescenza nella quale vi è la strutturazione del "futuro" adulto.

Il tutto non senza considerare che spesso, molto spesso, l' erba è l' anticamera per passare poi all' uso di sostanze ancora più disastrose.

Detto questo invito a riflettere con estrema attenzione sull' ipotesi prospettata da Quatrano che, ripeto, sul piano sociale potrebbe anche apparire giusta, ma purtroppo è inaccettabile in relazione ai soggetti consumatori.

Questa considerazione induce ad opporsi fermamente a qualunque ipotesi di liberalizzazione di una sostanza, che in ogni caso è dannosa, e che in alcune specifiche ipotesi diviene micidiale;e lo Stato non può permetterne la legalizzazione.

Appare perciò più giusto mantenerne costoso e pericoloso l' acquisto, perché in ogni caso questo meccanismo che espone sia ad alti costi, sia ai rigori della legge, ne limita comunque l' approvvigionamento.

Chiedo che la eventuale pubblicazione di questo mio scritto avvenga senza l' indicazione del mio nome per tutelare la privacy di mia figlia

martedì 7 gennaio 2014

AFFONDÒ PETRAEUS, ORA È UN SIMBOLO JILL SFIDA CIA E FBI SULLA PRIVACY

Era la reginetta delle mondanità di provincia.

Veniva sempre bersagliata dai flash ed era amica di generali e ambasciatori, che invitava regolarmente alle feste a base di caviale e champagne nella sua villa a Hillsborough Bay, vicino alla base del Pentagono a Tampa, in Florida.

Ma un anno fa la vita scintillante di Jill Kelley cambiò per sempre.

Fu lei, inconsapevolmente, a far scoppiare lo scandalo che nel novembre 2012 portò alle dimissioni dal vertice della Cia del generale a quattro stelle David Petraeus.

Sempre lei, involontariamente, a trascinare nei guai il generale John Allen, comandante delle forze americane in Iraq.

E adesso, dopo mesi di umiliazioni e pettegolezzi a sue spese, Kelley ha deciso di passare al contrattacco, facendo causa all' ex-segretario alla difesa Leon Panetta e ad altri capi della Cia e delle forze armate per violazione della privacy.

«Voglio difendere la mia reputazione, tornare a una vita normale e proteggere altri da simili soprusi», ha spiegato Jill Kelley, che è nata a Beirut 38 anni fa ma è poi cresciuta in America.

L' accusa che rivolge al governo?

Il motivo per cui chiede un lauto risarcimento?

Di essere penetrato nella sua posta elettronica senza autorizzazione e di averne reso noto il contenuto.

E soprattutto, dando in pasto il suo nome al pubblico, di averla fatta passare per una donna dai facili costumi e averle così rovinato la vita.

«Nessuno si è reso conto di quanto abbia sofferto per le bugie raccontate dai media», ha detto in una intervista al New York Times. Sposata con un oncologo di fama, tre figli, Jill Kelley non ha certo il "look" della paladina della privacy.

Eppure la sua denuncia arriva in un momento delicato per via delle rivelazioni di Edward Snowden sullo spionaggio della Nsa, che continuano a scuotere la sensibilità americana.

Più in generale, le sue accuse ripropongono il problema della privacy.

«E nel caso della Kelley», precisa il suo avvocato Alan Charles Raul, «il governo americano ha disatteso l' impegno a evitare ogni intrusione elettronica nella vita di cittadini innocenti».

Tutto è cominciato 13 mesi fa quando la reginetta della mondanità di Tampa si è rivolta a un conoscente dell' Fbi per denunciare una mail anonima e piena di minacce.

Chi l' aveva scritta?

Era stata Paula Broawdwell, biografa di Petraeus e amante segreta (e gelosa) del generale.

La scoperta della relazione extra-matrimoniale costrinse Petraeus a dare le dimissioni: era diventato capo della Cia sull' onda dei successi militari in Iraq come responsabile del Comando Centrale di Tampa, si ipotizzava persino una sua candidatura alla Casa Bianca, ma in poche ore il suo astro si era spento.

Nella posta elettronica di Jill Kelley sono stati anche scoperti alcuni messaggi in apparenza compromettenti del generale Allen, che era stato anche lui a Tampa prima di andare in Afghanistan.

«Hanno un contenuto sessuale», disse uno degli investigatori, avvalorando l' esistenza di una relazione intima con la Kelly.

Poi le indagini hanno assolto il militare, senza però ridare alla Kelly lo scettro della mondanità.

Di qui l' offensiva giudiziaria contro il Pentagono, l' Fbi e la Cia.

QUEGLI INSULTI A BERSANI E MERKEL COSÌ IL SOCIAL ODIO AVVELENA IL WEB

Il ventre più basso della Rete fa orrore.

«Muori Bersani.

Spero che arrivi morto all' ospedale».

Sghignazza per battute minime.

«Vai a smacchiare i giaguari nell' aldilà...»

Senza pietà.

«Peccato che la Merkel non abbia battuto la testa, questo scorfano in gonnella purtroppo respira ancora...»

Sordo alla sofferenza dell' altro.

«Caterina, se crepavi anche a 9 anni non fregava nulla a nessuno».

Il social odio negli angoli bui del web si sparge in fretta: un post su facebook, poi un altro, un hashtag, i commenti si fanno cattivi, poi infami.

Il branco che individua il capro da "sacrificare", per espiare chissà quali frustrazioni.

Ieri la vittima era una ragazza che lotta contro quattro malattie rare, oggi sono Pierluigi Bersani e Angela Merkel.

«Speriamo che ci resta secco», scrive Salvatore appena si diffonde la notizia dell' emorragia cerebrale che ha colpito l' ex segretario del Pd.

«Crepaaaa e portati pure il mortadellone di merda», risponde Mirco.

Anche nelle pagine Facebook dei giornali, tra i tanti, tantissimi messaggi di solidarietà, sono apparsi post (immediatamente rimossi) come questi: «Riposa in pace, parassita», « eddaje che ce lo leviamo dalle palle», «spero schiatti lentamente soffrendo tanto tanto».

Subito dopo su Twitter qualcuno lancia l' hashtag #bersanimuori.

Simone scrive: «Godo!».

Poi ne è nato un dibattito sul web, quasi tutti a condannare l' idiozia di un hashtag del genere e qualcuno che però lancia delle provocazioni: «Gli davano del mentecatto fino a ieri e adesso tutti piangono al capezzale. Dai, solite pulcinellate», dice Paolo.

E Antonio osserva: «Sono mesi che Beppe Grillo parla di morti e augura morte, quindi perché sconvolgervi per #bersanimuori ?».

Alcuni post di verio presunti fan di Grillo, apparsi in queste ore, fanno discutere.

Vito Crimi, ex capogruppo del Movimento 5 Stelle in Senato, ne ha scritto uno di incoraggiamento a Bersani sulla sua pagina Facebook, ma nel diluvio di commenti che neè seguito ci sono quelli di Enza, «la notizia mi ha lasciato del tutto indifferente», Mariano, «nessuna pietà per chi non ne ha avuta», Ester, «finiamola con questo buonismo, Vito».

Insomma, il popolo che non prova misericordia di fronte all' avversario in difficoltà, che non concede l' onore delle armi e affonda lo stesso il colpo.

Poi però è stato proprio Grillo a mettere sul suo blog un lungo messaggio di solidarietà a Bersani.

Spiega il sociologo Paolo Ferri, docente all' Università Bicocca di Milano: «Manifestazioni di odio come queste sono aumentate perché si è massificata l' utenza.

Prima del settembre 2009 i social network erano di nicchia, poi c' è stato il boom.

Il risultato è che si è abbassato il livello medio dell' utente».

Anche la frattura del bacino di un leader politico, quale è la cancelliere tedesco Angela Merkel, caduta mentre faceva sci di fondo, aizza il branco.

«Che sfiga respira ancora», scrive Simone su Facebook.

E altri aggiungono: «Bene! Prossima volta punta direttamente al burrone...», «Bersani in ospedale, la Merkel è caduta... bastardi crepate».

Insomma, grosso modo il tenore è questo.

Nessuno si nasconde dietro l' anonimato, tutti hanno una faccia, un nome e un cognome.

«Spesso si è convinti che il messaggio non si diffonda - spiega ancora Ferri - c' è veramente poca consapevolezza dei settaggi di privacy dei social network».

Bersani, la Merkel, Caterina Simonsen, la 25enne padovana studentessa di veterinaria ricoperta di insulti e minacce sul web dagli animalisti più radicali, sono solo gli ultimi episodi.

Quando Umberto Bossi si sentì male, nel 2004, nelle community e nei forum giravano messaggi del tipo «forza ictus!».

Lo stesso accadde quando Berlusconi fu colpito dalla statuetta lanciata da Tartaglia in piazza duomo a Milano: di auguri di morte ne apparvero a centinaia.

E chi si dimentica cosa venne fuori da "Microfoni aperti", quell' iniziativa lanciata da Radio Radicale nel 1993 per cui venivano trasmessi senza censura i messaggi degli ascoltatori?

«Milanesi bastardi», «terroni peste d' Italia», «nordisti froci».

Su 100 telefonate, 60 erano di odio.

Internet non è diverso, è solo un megafono più grande.

'SCHUMACHER, SEGNI DI LEGGERO MIGLIORAMENTO'

Ieri le condizioni di salute di Michael Schumacher hanno registrato «segni di un leggero miglioramento», anche se le sue condizioni restano critiche.

Lo riferisce una fonte vicina al campione del mondo di Formula Uno ricoverato in coma nell' ospedale francese di Grenoble dallo scorso 29 dicembre, data del terribile incidente durante una discesa sugli sci fuori pista a Meribel.

La notizia è filtrata dopo un comunicato ufficiale congiunto da parte dell' ospedale e della portavoce del pilota Sabine Kehm che parlava di condizioni critiche ma stabili, con ben pochi dettagli per rispettare «la privacy del paziente», motivo per il quale i medici hanno anche escluso nuove conferenze stampa.

Intanto, sul fronte delle indagini, domani mattina ad Albertville ci sarà un incontro degli inquirenti con la stampa per fare chiarezza sulla dinamica dell' incidente e sugli sviluppi della ricostruzione.

Lo ha annunciato il procuratore Patrick Quincy, spiegando che dirà tutto quel che è successo il 29 dicembre a Meribel.

Le immagini della telecamera installata sul casco di Schumacher saranno d' aiuto, come lo saranno quelle del video filmato casualmente da un turista tedesco di soli 15 anni.

Schumacher è in coma indotto da più di una settimana.

Nella caduta il pilota tedesco ha subito un grave trauma cerebrale ed è stato operato d' urgenza il 29, mentre in un secondo intervento chirurgico, il 30 dicembre, gli è stato tolto un coagulo nella parte sinistra del cervello.

FAMIGLIA, STRASBURGO CONDANNA L'ITALIA: IL COGNOME DELLA MADRE AI PROPRI FIGLI È UN DIRITTO

I genitori devono avere il diritto di dare ai figli il solo cognome materno.

Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani (ha sede a Strasburgo e non è un'istituzione dell'Ue) che oggi ha condannato l'Italia per aver violato i diritti di una coppia di coniugi avendo negato ai due la possibilità di attribuire alla figlia il cognome della madre anziché quello del padre.

Nella sentenza, che diverrà definitiva tra 3 mesi, i giudici sottolineano che l'Italia "deve adottare riforme" legislative o di altra natura per rimediare alla violazione riscontrata.

Invito accolto prontamente dal presidente del Consiglio Enrico Letta che in serata ha commentato su Twitter.

A fare ricorso a Strasburgo sono stati i coniugi milanesi Alessandra Cusan e Luigi Fazzo, cui lo Stato italiano ha impedito di registrare all'anagrafe la figlia Maddalena, nata il 26 aprile 1999, con il cognome materno anziché quello paterno.

Sin da allora, la coppia si è battuta per vedersi riconosciuto questo diritto (e per consentire alla prole di perpetuare il patrimonio morale del nonno materno, deceduto, e che secondo la coppia era un filantropo, del quale sarebbe rimasta cancellata la memoria perché il fratello della signora non ha eredi).

Oggi la Cusan esulta: "Sono ovviamente entusiasta - dice a caldo - è un'altro passo avanti verso il progresso, e servirà soprattutto ai nostri figli".

Tutto era cominciato con la nascita di Maddalena, 15 anni fa: i coniugi (che poi metteranno al mondo altri due figli) provano a iscriverla nei registri dell'anagrafe con il cognome materno, ma la richiesta viene bocciata.

Un paio d'anni più tardi, i coniugi ci riprovano con il tribunale di Milano, il quale fa notare che, sebbene non vi sia alcuna disposizione giuridica perché un neonato sia registrato con il nome del padre, questa regola corrisponde a un principio ben radicato nella coscienza sociale e nella storia italiana.

Nel processo d'appello, viene confermata la sentenza di primo grado.

Ma la coppia non demorde.

Cusan e Fazzo interpellano Strasburgo e fanno appello all'articolo 8 (diritto al rispetto per la privacy della vita di famiglia) e all'articolo 14 (che proibisce le discriminazioni) della 'convenzione europea dei diritti umani'.

Oggi la sentenza dà loro ragione.

Già in passato, però, era stata la Cassazione a dare a più riprese picconate all'impianto giuridico che impedisce alle mamme di dare il proprio cognome ai figli.

Dopo essersi pronunciata in tal senso nel 2006, nel 2008 la Corte Suprema ha spezzato un'altra lancia a favore dell'attribuzione del cognome materno ai figli legittimi nel caso in cui i genitori, concordemente, abbiano questo desiderio.

La sentenza stabiliva, infatti, che a seguito all'approvazione, il 13 dicembre 2007, del Trattato di Lisbona, anche l'Italia, come tutti gli attuali 28 Stati membri, ha il dovere di uniformarsi ai principi fondamentali della Carta dei diritti Ue tra i quali il divieto "di ogni discriminazione fondata sul sesso".

Ma mentre nel 2006 la Cassazione si era limitata ad un appello al parlamento affinché con una legge consentisse l'adozione del cognome materno, due anni dopo i magistrati di Piazza Cavour avevano detto di essere pronti a rimuovere, disapplicandole, o avviando gli atti alla Consulta, le norme italiane in contrasto con i princìpi del Trattato.

Nel 2012, una ulteriore svolta che va nella direzione dell'aggiunta del cognome materno a quello del padre, ma non della sostituzione.

Con il decreto del presidente della Repubblica del 13 marzo 2012 (che modifica un precedente decreto del 2000), infatti, le competenze sono passate dal ministero dell'Interno alle singole prefetture con l'obiettivo di snellire le procedure burocratiche e garantire tempi più rapidi.

Ma oggi i giudici di Strasburgo nella loro sentenza sottolineano che tale possibilità di 'aggiunta' non è sufficiente a garantire l'eguaglianza tra coniugi.

lunedì 6 gennaio 2014

NON SOLO BITCOIN: DA DOGECOIN A SEXCOIN, È BOOM PER LE MONETE DIGITALI "CRIPTATE"

Bitcoin sì, ma c'è altro: cresce il numero di monete virtuali che sbarcano sul mercato dell’economia digitale, sfruttando la popolarità e il codice sorgente del loro fratello maggiore, dalla filosofia rigorosamente open source.

Dal Bitcoin originario discendono altri strumenti di credito elettronico criptato, così tante da coniare persino un nuovo termine: criptomania.

Una febbre in grado di scavalcare il temuto rischio bolla, le folli fluttuazioni cui ci ha abituato la finanza online e anche le restrizioni ultimamente introdotte da molte banche indiane, francesi, cinesi e tedesche nella conversione delle bit-valute in soldi reali come euro, yen, dollari e sterline.

"Molto speculativo" e "rischioso" è il modo in cui la Bank of France ha bollato il denaro virtuale in una recente relazione.

L’obiettivo: scoraggiare i potenziali acquirenti.

Ottanta monete.

Ma tutto ciò non è bastato a frenare l’entusiasmo dei creatori di cripto-monete.

Sono ben ottanta le diverse valute digitali censite in un’inchiesta del Wall Street Journal, mentre un report della Cnn ha alzato a cento l’asticella delle presenze degne di nota.

Un boom d’imitazioni.

Alle già esistenti Worldcoin, Namecoin e Hobonickels, tra ottobre e novembre del 2013, si sono affiancate Gridcoin, Fireflycoin, Zeuscoin, Anoncoin e sì, anche Sexcoin che – si legge nell’homepage del sito ufficiale – ha lo "scopo di fornire a consumatori, produttori e attori di contenuti per adulti un metodo sicuro e veloce per accettare micro-transazioni, proteggere la privacy dei clienti, potenziare i servizi a luci rosse nella cripto-era".

L'ultima sarà lanciata l'11 gennaio.

Si chiama CoinYe West ed è un tributo al cantante americano, Kanye West. Mentre poco prima è stata la volta di Dogecoin: creata lo scorso novembre da Jackson Palmer e Billy Markus in omaggio al "Meme del 2013", una sorta di tormentone virale, con protagonista il faccione di un cane di razza Shiva.

Il suo valore, corrispondente a 0.00023 dollari, è ancora basso.

Ma la nuova moneta, con cui si possono già fare transazioni, è diventata popolare grazie all'attiva comunità su Reddit, il sito di notizie social.

Tanto da far gola ai pirati informatici che, in accordo al blog ufficiale, il giorno di Natale hanno rubato circa dodicimila dollari.

CoinYe West e Dogecoin non sono la sola novità.

Basta visitare il sito CoinMarket che tiene traccia delle nuove valute per farsi un'idea del panorama.

Nuove economie digitali.

"L’idea è creare un’economia a sé stante", commenta a Repubblica.it Alessandro Longoni, membro di CashlessWay, l’associazione nata per promuovere la cultura dei pagamenti digitali.

"Bitcoin è stato il primo a gettare le basi in questa direzione e ha avuto il merito di promuovere un nuovo modo di vedere le cose".

È il 2009, quando una persona, o un collettivo, nascosto dietro lo pseudonimo giapponese di Satoshi Nakamoto, pubblica in rete il documento alla base di quella che secondo i più progressisti sarà la moneta del futuro, o più realisticamente un metodo "promettente nel lungo periodo, per sistemi di pagamento più veloci, sicuri ed efficienti", come ha suggerito il governatore della Fed, Ben Bernanke.

"Una versione – scrive Nakamoto nel suo manifesto online – del contante elettronico puramente peer to peer che consente lo scambio di denaro online da un utente all’altro senza passare attraverso un’istituzione finanziaria", senza intermediari che rallentino il processo né aggiungano spese.

Addio monete di carta, sostituite dalle digitali, e addio banche, quindi, è la soluzione proposta dal misterioso Nakamoto; benvenuti invece coloro che in gergo sono stati definiti miner, minatori in italiano, cioè utenti in grado di produrre soldi virtuali grazie a computer, dall’enorme potenza di calcolo, capaci di risolvere complicati problemi matematici.

A regolare l’emissione delle valute non c’è alcun organo centrale.

È il singolo internauta che, nel rispetto di un determinato limite di liquidità - per i Bitcoin fissato a 21 milioni di dollari, di cui si stima ne sia in circolazione la metà - può battere moneta, purché abbia un software adeguato.

Una rivoluzione.

Da qui il successo.

Secondo Forbes, il 2013 è stato l’anno della moneta virtuale creata quattro anni fa da Nakamoto, sempre più diffusa negli store online - da Bitcoinstore ad Agrobit.net - e in grado di sostituirsi al portafogli dentro alcuni negozi fatti di calce e cemento.

Una tendenza iniziata oltreoceano, da poco arrivata in Italia, dove a novembre si è costituita la Bitcoin Foundation, società no profit con lo scopo di diffondere l’adozione della nuova moneta, già usata per saldare corsi di Yoga e vacanze in montagna.

Ora sembra il momento dei suoi sosia. Dal blog high tech Mashable, al sito del Guardian: sono in tanti a voler stilare una classifica delle più importanti valute che costituiscono una valida e diversa scelta per chi al momento vuole affacciarsi al mondo dell’economia digitale.

Andreas Antonopoulos, consulente di diverse startup basate sui Bitcoin, lo definisce un vero ecosistema che ha due scopi: "Il primo è testare nuove tecnologie, rivelare come funzionano e se il mercato è in grado di accettarle.

Il secondo è dimostrare clamorosi fallimenti".

Il modo per usarli è sempre lo stesso: si possono scaricare gli appositi software, aprire un portafoglio virtuale con cui inviare e ricevere i soldi, dopo averli comprati grazie a determinate piattaforme online, oppure minati.

Come i Bitcoin, anche i fratelli minori si basano su due princìpi fondanti: il peer to peer, cioè un sistema di scambio dei file in rete che non usa un server centrale, ma collega i pc direttamente tra loro.

E la crittografia a chiave asimmetrica.

Che cosa cambia?

Per lo più il modo di minarli, quindi di tracciare le transazioni e produrre moneta.

Nel caso dei Litecoin, la seconda valuta virtuale nata nell’ottobre 2011 dal mouse del californiano Charles Lee, a variare è il sistema di protezione, Scrypt, e l’algoritmo di mining capace di processare un blocco di dati ogni due minuti e mezzo.

Contro i dieci dei Bitcoin.

Inoltre, il tetto di liquidità è fissato a ottantaquattro milioni, a fronte dei ventuno previsti dalla moneta di Nakamoto.

Ma sono anche altre le modifiche possibili: c’è l’algoritmo del Peercoin che punta a un basso consumo energetico; quello che punta a scoprire nuovi numeri primi, Primecoin; e quello che offre una maggiore velocità nella conferma della transazione come Freicoin.

Una caratteristica, quest’ultima, comune a Ripple, altra moneta virtuale, che per velocizzare il sistema si serve di un registro chiamato Ledger per monitorare gli scambi.

Quale futuro allora per tutte queste valute?

"Il 99 per cento – assicura Antonopoulos – scomparirà".

SCHUMACHER, CONDIZIONI IN LEGGERO MIGLIORAMENTO

Sono in leggero miglioramento le condizioni di Michael Schumacher, ricoverato da otto giorni in coma farmacologico all'ospedale di Grenoble dopo l'incidente sugli sci di domenica 29 dicembre a Meribel.

I medici che lo hanno in cura, afferma una fonte vicina al campione tedesco, hanno affermato che Schumacher mostra "segni di un leggero miglioramento" anche se le condizioni restano critiche.

In precedenza infatti, un comunicato congiunto da parte dell'ospedale e della portavoce Sabine Kehm parlava di condizioni stazionarie, sempre "critiche" anche se "stabili".

"La privacy del paziente esige che non entriamo nei dettagli della terapia che sta seguendo e per questa ragione non prevediamo conferenze stampa né la diffusione di altri comunicati stampa nell'immediato", si legge sul comunicato.

Per quanto riguarda le indagini, il procuratore e la polizia faranno il punto della situazione mercoledì alle ore 11 presso il tribunale di Albertville: lo ha annunciato il procuratore Patrick Quincy.

Il procuratore ha spiegato che mercoledì farà chiarezza su quello che è successo il 29 dicembre a Meribel.

Le immagini della telecamera sul casco di Schumacher permetteranno di trarre delle conclusioni su come è successo l'incidente, come il video filmato casualmente da un turista tedesco di 15 anni.

Schumacher è in coma indotto da più di una settimana.

Nella caduta il pilota tedesco ha subito un grave trauma cranio-cerebrale.

Arrivato all'ospedale il pilota tedesco è stato operato d'urgenza.

In un secondo intervento chirurgico il 30 dicembre gli è stato tolto un coagulo nella parte sinistra del cervello, dove ce ne sono altri a cui è difficile accedere.

domenica 5 gennaio 2014

IL SENATORE D'AMBROSIO LETTIERI A PROCESSO "TESSERE FALSE PER VINCERE IL CONGRESSO PDL"

Violazione della privacy, appropriazione indebita e falso in scrittura privata.

Il 31 marzo il senatore di Forza Italia Luigi D’Ambrosio Lettieri, dovrà presentarsi davanti al giudice monocratico Roberto Ceppitelli come imputato per la vicenda delle tessere false del Pdl.

La Procura di Bari, dopo un supplemento d’inchiesta durato qualche mese, ha chiuso nuovamente le indagini disponendo la citazione diretta del senatore e segretario cittadino del partito.

Secondo l’accusa, D’Ambrosio tramite il suo assistente Giuseppe Casalino e un dipendente dell’ufficio postale dell’Ipercoop di Japigia, Dario Papa, avrebbe comprato un centinaio di tessere a nome di ignari baresi pagandole dieci euro ciascuna.

La Digos che ha condotto le indagini ha infatti chiamato a uno a uno i presunti iscritti che in comune avevano soltanto il conto corrente nell’ufficio postale di Japigia (altri invece avevano dato un loro documento a un Caf), che hanno raccontato di non essere mai stati iscritti al Pdl.

«Io? Berlusconi? Ma siamo impazziti!» ha messo a verbale, imbufalito un settantacinquenne con la tessera dei partigiani in tasca.

Non a caso nel procedimento sono state individuate 136 persone offese che ora possono anche costituirsi parte civile ed eventualmente chiedere i danni ai tre imputati.

Oltre a loro, tra le vittime di questa storia sono stati individuati il Pdl e le Poste.

Il caso era scoppiato nel febbraio del 2012, in concomitanza con il congresso cittadino del Pdl.

A sollevarlo era stato il consigliere comunale (oggi candidato alle primarie del centrodestra per Fratelli d’Italia) Filippo Melchiorre, e subito a ruota era arrivato un servizio di Striscia la Notizia: Melchiorre aveva scoperto che risultavano 139 iscritti con residenza in via Colaianni 10, che altro non era che un sottoscala.

La Procura aveva aperto un’indagine immediatamente delegando la Digos.

Dopo aver acquisito documenti a Bari e a Roma, la Polizia era arrivata alla conclusione che si trattava di iscrizioni farlocche.

Il problema era individuare però qual era il trait d’union tra persone che mai si erano viste nella loro vita: si arriva così all’ufficio postale dell’Ipercoop di Japigia e quindi al nome di Papa.

L’uomo è fratello di un militante del partito e probabilmente lo ha fatto per dargli una mano nel congresso.

Non solo: per evitare le finte iscrizioni a pacchetto, il partito aveva vietato il bonifico unico per il pagamento ma era invece necessario che a ogni tessera corrispondesse un singolo bollettino da 10 euro.

A prendersi la briga era stato appunto l’assistente di D’Ambrosio.

Che, a caldo, a Repubblica aveva però negato ogni sua responsabilità.

«Papa lo conosco - aveva spiegato il senatore - Sulla vicenda delle poche tessere assurte agli onori della cronaca, gli uffici del partito stanno effettuando le dovute verifiche».

La Polizia ha fatto più in fretta.